Iran Horror Social Show
ANALISI
I due mesi di proteste dimostrano la crisi organica della Repubblica islamica, ma rivelano anche un generale imbarbarimento del dibattito
Come funziona la macchina del fango dei cosiddetti attivisti iraniani? È semplice: si individua un nemico, uno qualunque, facile da colpire e a portata di click. Qualcuno che non costa nulla colpire. Si manipola una dichiarazione, si fa magari un video diffamatorio e si spamma a più non posso. Si fanno liste di proscrizione con nomi e cognomi e false accuse. Proprio come fanno i regimi che dicono di voler combattere. Ti ritrovi così un gruppazzo di account dai nomi eroici che cominciano a insultare e minacciare.
Gli iraniani che ti conoscono – a parte sparute eccezioni – stanno muti, perché non si sa mai, la merda nel ventilatore magari potrebbe colpire pure loro.
Poi ci sono gli italiani mai stati in Iran, quelli che fino a due mesi fa ti chiedevano consigli e spiegazioni. Adesso sono tutti fomentati a condividere post e slogan, l’ombra del dubbio non li sfiora mai. Anche perché è così facile lottare per la libertà dal divano di casa tua, chi lo avrebbe detto mai.
Infine ci sono gli italiani che l’Iran lo conoscono, conoscono te. Fino a due mesi fa collaboravano con te, con l’Istituto culturale, hanno tradotto libri e preso borse di studio. Ma adesso sono diventati duri e puri e loro – per carità – la Repubblica islamica quando mai? L’hanno sempre odiata, ma che scherzate? E guai ad avanzare un dubbio, una preoccupazione su cosa possa mai venire fuori da cotanto furore digitale.
Un tratto comune emerge prepotentemente nella grafica di costoro: la bandiera dello scià. Stai a vedere che il cavallo – imbolsito – su cui quei geniacci di Washington puntano stavolta è proprio quello.
Con simili amici, chi ha bisogno di nemici?